Nella foto, il neo-primo ministro inglese David Cameron: soddisfatto del riconoscimento
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di Andrea AMBROSINO
Terminate le cerimonie d’insediamento, i sorrisi alla stampa, le dichiarazioni post voto congli intenti programmatici per il prossimo quinquennio, la strana coppia al timone d’Inghilterra composta dal Prime Minister conservatore David Cameron e dal suo deputy, il liberaldemocratico Nick Clegg, si appresta a governare una Gran Bretagna con diversi punti interrogativi da risolvere.
L’eredità lasciata dal governo laburista targato Gordon Brown porta con sé un fardello non indifferente, soprattutto per ciò che concerne i conti pubblici della nazione. Tuttavia, risulterebbe ingeneroso attribuire ogni responsabilità a Brown, in quanto buona parte delle difficoltà economiche d’oltremanica derivano anche da quella crisi finanziaria che ormai da un paio di anni sta attanagliando l’eurozona (e non solo) e che evidentemente non ha risparmiato neanche i sudditi di Sua Maestà.
Da diversi anni, infatti, il Regno Unito fa i conti con una crescita minima e con una crisi occupazionale senza precedenti.
Dunque, l’obiettivo primario per Cameron&Co è in primis quello di favorire il più rapidamente possibile la ripresa economica, per dare una stabilità al paese e per sciogliere ogni legittimo dubbio legato ad una coalizione governativa eterogenea emersa da una tornata elettorale che non ha espresso una maggioranza assoluta, bensì un hung parliament.
Per far fronte a questa delicata situazione, il Cancelliere dello Scacchiere, nonché Ministro del Tesoro George Osbourne ha approntato una manovra all’insegna del sacrificio, volta a risanare i bilanci dello Stato.
Tra i vari tagli alla spesa, Londra ha deciso di ridurre drasticamente le assunzioni nella pubblica amministrazione, ha soppresso le auto blu per i membri del governo oltre che imporre loro una sostanziale riduzione degli stipendi.
Altri accorgimenti nel settore riguarderanno poi le varie consulenze e le risorse destinate agli enti locali.
Contributi sociali ed iva subiranno un aumento rispettivamente dello 0,5 per cento e del 2,5 per cento.
In sostanza, la manovra dovrebbe portare nelle casse dello Stato britannico un risparmio per circa 7,2 miliardi di euro con una conseguente diminuzione del deficit dall’11,5 per cento registrato nel 2009 fino ad un 2,3 per cento stimato per il 2013.
Questo severo giro di vite, se da un lato si spera possa risanare il debito pubblico, c’è da giurarci comporterà un notevole rischio d’impopolarità per l’attuale esecutivo.
“Sacrificarsi oggi per il bene di domani” potrebbe essere il motto adatto per comprendere al meglio la necessità di un’azione così drastica che avrà dirette ripercussioni nel portafoglio degli inglesi.
All’analisi dei fatti, nonostante l’apparente perseveranza nel suo storico status di “splendido isolamento”, legato anche alla scelta di mantenere la sterlina come moneta nazionale, il destino della Gran Bretagna pare essere più che mai strettamente connesso alle alterne fortune dell’euro.
La crisi della moneta unica europea, infatti, ha messo in evidenza quei legami che la globalizzazione in generale ed il processo di formazione europea nella fattispecie hanno reso inevitabili.
Gli euroscettici di stampo britannico, prima o poi, dovranno fare i conti con questa realtà. E proprio Cameron e Clegg sono l’emblema del dualismo generatosi all’interno della politica inglese nei confronti dei rapporti con l’Unione Europea. Più propenso ad una parziale chiusura il primo e pronto ad una potenziale apertura il secondo.
Per il momento però tiene banco la manovra economica, con i suoi tagli ed i suoi sacrifici.
Specchio di un periodo di austerità che si è appena aperto.
Andrea Ambrosino
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Vignetta tratta da The Economist