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La riflessione. Cultura politica, la (mancanza di)speranza M. Rosadi

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Dopo il grande successo del capo- lavoro sul duello, la grande firma del giornale della politica italiana torna a porci un nuovo tema di cultura politica (e non solo). Che ben si inserisce nei fatti di questi ore. Entrambi quelli raccontati nel Diario (e dopo): la manovra correttiva da 24 miliardi e gli sviluppi del confronto sul ddl intercettazioni. Rosadi parte di (o arriva) qui, ma la sua riflessione vale anche per lo stato dei nostri conti e per il debito. Quando viene meno il senso della necessità, perché si è già (apparentemente) raggiunto il proprio obiettivo o ci si trova di fronte ad una (sempre apparente) prospettiva felice, è quello il momento in cui la Storia comincia a svoltare in negativo. La manovra di oggi è resa necessaria, da ultimo, dalla cattiva gestione dei conti da parte del governo che ha evitato una correzione progressiva e spalmata nel tempo – ricordiamo che siamo entrati nel terzo anno di legislatura – che ci avrebbe scampato (parte de)i sacrifici di oggi. Ma la concausa è la crisi economica la cui radice sta nella governance scellerata dell’economia e della finanza che – ecco il (primo) punto – si è verificata nel momento in cui si è creduto di essere approdati ad un sistema che fosse capace di reggere da solo, e che avrebbe garantito a tutti un benessere stabile. Ma ancora più chiaro è l’esempio della radice del nostro debito: negli anni ’80, all’apice della parabola di crescita del nostro Paese nel dopoguerra, e proprio per questo – quando cioè l’Italia aveva raggiunto una condizione soddisfacente che ha appagato, appunto, il proprio bisogno di crescita e di affermazione e ha (mostrato di) assicurare un futuro di prosperità – si è deciso di sciogliere le briglie, e lasciare che il cavallo andasse e si cibasse in libertà con l’esito di ingrassarlo e farlo infortunare. Un problema che riguarda i governanti direttamente ma, prima ancora, l’opinione pubblica, che smette di esercitare la propria funzione di controllo. Su questo torneremo dopo con un’altra riflessione (di un’altra delle nostre grandi firme) che coronerà questa narrazione di oggi – dalla crisi, e dal confronto sul ddl intercettazioni, alla sua radice culturale al tema, appunto, della vigilanza e del controllo da parte dell’opinione pubblica; in un’ultima analisi, dell’opinione pubblica tout court - Rosadi intanto dunque. Sulla (mancanza di) speranza.           

Nella foto, Marco Rosadi

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di MARCO ROSADI

Spes, ultima dea, ma chi vive sperando muore cantando. “La speranza è ormai un’abitudine” modulava malinconicamente Luigi Tenco nella sigla del Maigret televisivo. Disincanto e spleen a parte, cos’è la speranza? Un aspettando Godot giustificato solo fino a un certo punto? Un moto spavaldo di fronte a quella valle di lacrime che tutti chiamano vita?

Forse è qualcosa di meglio. Uno stato di rasserenante fiducia e approvazione, un’esuberanza progettuale che guarda al futuro con entusiasmo. La seconda virtù teologale della morale cattolica, nel gergo marinaro designa un’ancora di riserva: un’àncora di speranza. Siamo partiti dalla speranza e siamo ritornati ancóra alla speranza, stabile ormeggio, vicolo cieco dell’illusione, scatola cinese dell’ottimismo.

E non è solo un problema di cambiamento d’accento. Il regista Mario Monicelli l’ha definita una «trappola». Sì, la speranza può divenire la gabbia di chi perde contatto con la concretezza del reale inseguendo la fata morgana consumistica. E quando occhi, orecchie e mente non riescono più a distinguere necessità e libertà, causa ed effetto, persecutore e perseguitato, autenticità e finzione…

Clic! La trappola è già scattata. Rosa, azzurri o dorati che siano, calappi, tagliole e bavagli non rendono liberi gli uomini e i popoli. «Tu non sei un cavallo, sei un cittadino democratico». Lo gridava Gian Maria Volonté nella parte di un funzionario di polizia che fa il terzo grado a uno studente dell’ultrasinistra. È una sequenza indimenticabile del film di Elio Petri “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”. Accadeva quarant’anni fa.

Oggi, più si è ricchi e potenti, e più si è oltre ogni ragionevole sospetto. E se la stampa libera – una sparuta frangia che presto dovrà cambiare lavoro – vuole semplicemente svolgere il proprio mestiere senza guardare in faccia a nessuno? Ai giornalisti si vieta di ficcare naso, teleobiettivo e videocamera nella “candida” privacy dei postmoderni ottimati. Questo è un paese democratico. Basta con le intercettazioni!

Basta con il diritto di essere informati. Basta con l’articolo 21 della Costituzione. Basta con la fiducia nell’inscindibile binomio di verità e libertà. A questo punto cosa dovrebbe fare un cittadino democratico che non sia un “cavallo”? Forse può abbattere sbarre e muri di quella speranza che non guarda più avanti. O pretendere la vera alternativa da chi gli chiede il voto annunciando l’imminente disastro dell’avversario. La speranza può diventare una trappola se nel film dell’esistenza dimentica l’indignazione.

MARCO ROSADI


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